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Il 2016 è stato l’anno di Atlante. Lo sarà anche il 2017?

Ma cos’è in effetti il Fondo salva-banche? Una brevissima guida al funzionamento dell’ente preposto a garantire gli aumenti di capitale degli istituti in crisi. E un paio di domande sugli effetti a lungo termine dell’operazione.

Il passaggio da un anno a quello successivo, pur trattandosi di una scansione a quasi tutti gli effetti “convenzionale”, è sempre foriero di considerazioni e confronti, oltre che di aspettative e lancio del vecchiume dalla finestra del tinello.

Per esempio vien da pensare a come la parola Atlante, alla fine del 2015, per molti italiani, richiamasse alla mente solo un antico volume di grande formato, zeppo di mappe e tavole, ormai da lustri a impolverire nella libreria di casa. Oppure, per i più colti e cosmopoliti, il mitologico gigante che sulle spalle reggeva la volta celeste, o infine la grande catena montuosa del Nord Africa.
Dal 2016 invece la parola si aggiunge, nei titoli dei giornali, nei discorsi dei politici, nei commenti sui social e nelle speranze di molti, al sostantivo Fondo, per denominare la più massiccia operazione di salvataggio delle banche in crisi – in particolare quelle del Nordest – orchestrata tra mano pubblica e operatori privati.

Vorremmo quindi “sprecare” il primo editoriale del 2017 con un contributo tecnico ma non troppo, speriamo gradito ai nostri lettori: la spiegazione di cosa sia e come funzioni il celebre, o già famigerato per alcuni, Fondo Atlante.
Nella certezza che la sua parabola non si esaurisce con il nuovo anno e non lo farà con l’avvicendarsi del prossimo. Si tratta per molti versi, inoltre, di una vicenda contigua, quando non sovrapposta, al “nostro” mondo professionale, soprattutto a quello di chi si occupa di credito e crediti.
Non ci interessa qui analizzare le operazioni già svolte dal Fondo, a partire dalla sua istituzione, ma esclusivamente fornire una breve e modesta guida teorica. Se ci resterà un po’ di spazio, infine, condivideremo alcuni interrogativi.

A cosa serve Fondo Atlante? Si tratta di un fondo d’investimento alternativo, finalizzato a sostenere gli aumenti di capitale richiesti dall’Autorità di Vigilanza, per le banche che si trovano a fronteggiare oggettive difficoltà di mercato, e a favorire la gestione dei crediti in sofferenza del settore, concentrando per questi ultimi gli investimenti sulle tranche junior.  Il Fondo Atlante dovrà impiegare il 70% della sua dotazione in vista degli aumenti di capitale e il 30% per le sofferenze, cioè gli NPLs.
Le adesioni al fondo contano 67 istituzioni italiane e straniere, divise tra banche – la maggior parte -, fondazioni bancarie, assicurazioni, enti previdenziali e altre organizzazioni e un consistente apporto della Cassa Depositi e Prestiti. L’obiettivo finanziario era, nelle intenzioni, un rendimento di circa il 6% all’anno e il suo orizzonte temporale si configurava come di medio-lungo termine, comunque entro la durata del fondo di 5 anni, estendibile per altri 3 anni di anno in anno. Il periodo di investimento previsto era 18 mesi, suscettibile di essere prolungato per altri 6 mesi, al fine di concludere le operazioni in corso.
I primi interventi – dall’esito discusso e discutibile – hanno riguardato le ricapitalizzazioni di BPVi e VenetoBanca, mentre in questi giorni si parla con insistenza di un coinvolgimento nello spinosa storia di MPS.
Le domande che vogliamo porci oggi, molto modestamente, riguardano la natura stessa del mezzo, in rapporto alle ragioni che ne hanno consigliato la creazione, e non l’operatività effettiva fin qui esplicata.
Dopo gli episodi di risoluzione del 2015 è chiaro a tutti come in un Paese in cui un terzo dei bond bancari è detenuto da famiglie, anche un minimo bail-in possa provocare conseguenze devastanti. Atlante nasce quindi dal timore che il fallimento dei richiesti aumenti di capitale produrrebbe un contagio sistemico.
Ma la struttura stessa del fondo non aumenta, in realtà, il rischio sistemico nel lungo periodo? Ricordiamo che Atlante è finanziato principalmente da banche Italiane. Agendo da azionista di ultima istanza, per evitare che gli istituti disastrati siano messi in risoluzione (con rischio bail-in), non sposta il rischio sul bilancio del fondo, aumentando l’esposizione delle banche relativamente più solide verso quelle deboli, in un sistema in cui le interconnessioni sono già fitte? Appare arduo dare per scontato che questa struttura elimini il pericolo di contagio in futuro, così come assai evanescente si è già dimostrato l’auspicato effetto-fiducia.
In secondo luogo, se il prezzo a cui i player stranieri sarebbero disposti a investire riflette l’effettivo valore di mercato dei titoli emessi dalle banche sofferenti, allora, acquistando a prezzi più elevati, il fondo di fatto non evita l’ingresso di capitale estero, sussidiando a tutti gli effetti le banche su cui agisce e provocando una ulteriore deviazione dalle regole di mercato? Pagata… dai soliti attraverso la partecipazione pubblica?
Queste e altre domande non hanno la pretesa di essere originali, né definitive, forse neppure di affrontare i temi centrali, ma ci piacerebbe fossero di stimolo, per tutti, ad approfondire un argomento ancora più determinante per il futuro del Paese – poiché rivelatore delle politiche venture – di quanto già traspaia drammaticamente dal racconto dei media.

E, a proposito, buon anno a tutti. Augurandoci che non si tocchi il Fondo.

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