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Il fallimento è morto. Lunga vita alla nuova riforma!

In 5 punti le principali novità della riforma che punta a favorire una composizione assistita delle crisi, cercando di contemperare gli interessi dell’azienda e dei debitori. Nasce la fase preventiva d’allerta, volontaria o d’ufficio.

La prima notizia è che non c’è più. O per lo meno non si chiama più così. E, come fanno notare diversi osservatori, la scomparsa del termine “fallimento” dalla nuova disciplina delle imprese insolventi o in crisi, non rappresenta un mero fatto linguistico, o una finezza di lessico giuridico.
Contiene in sé la presa d’atto che fare impresa, soprattutto in tempi difficili, comporta anche la possibilità di non riuscire, pur mettendocela tutta, e di poter danneggiare così, senza dolo né premeditazione, anche fornitori e creditori vari. E che esiti simili non debbono necessariamente attirare sull’imprenditore sfortunato o poco accorto la riprovazione sociale che il participio “fallito” – utilizzato ormai come ingiuria casuale anche nelle discussioni da bar – oggi comunemente sottolinea, né l’impossibilità per il soggetto di accedere nel futuro ad attività economiche in proprio.
Meglio tardi che mai.
Ma quali sono i punti salienti della riforma, per molti storica, varata da poche settimane, e che lo stesso Ministro della Giustizia saluta come una piccola rivoluzione rispetto a “Un impianto che risale ancora al 1942 con un meccanismo distorto che ha macinato in questi anni molte risorse sia imprenditoriali che di beni materiali”?

  1. Processi più semplici.
    Avranno priorità, nella trattazione, le proposte che assicureranno la continuità aziendale, perseguendo nello steso tempo tempo il miglior soddisfacimento dei creditori. La liquidazione giudiziale diventerà soluzione estrema. Durata e costi delle procedure concorsuali dovrebbero diminuire, responsabilizzando gli organi di gestione e contenendo i crediti prededucibili. Il giudice competente sarà individuato in base alle dimensioni e alla tipologia delle procedure concorsuali.
  2. Azioni preventive.
    L’obiettivo è agevolare la trattativa tra debitore e creditore, stimolando l’emersione anticipata della crisi. È stata introdotta, quindi, una fase preventiva di allerta ad hoc, attivabile dal debitore o dal tribunale, in seguito a un “allarme” lanciato dei creditori pubblici. Se la procedura è volontaria, il debitore sarà assistito da un apposito organismo istituito presso le camere di commercio e avrà 6 mesi di tempo per raggiungere una soluzione concordata con i creditori. Quando invece si procede d’ufficio, il giudice convocherà immediatamente, in via riservata e confidenziale, il debitore e affiderà a un esperto l’incarico di risolvere la crisi trovando un accordo entro sei mesi con i creditori.
    L’imprenditore che accede in modo tempestivo alla fase preventiva oppure ricorre ad altri istituti per la risoluzione concordata della crisi godrà di alcuni vantaggi (per esempio la non punibilità dei delitti fallimentari se il danno patrimoniale è di speciale tenuità, attenuanti per gli altri reati e riduzione di interessi e sanzioni per debiti fiscali). Dalla procedura d’allerta sono escluse le società quotate e le grandi imprese.
  3. Il concordato preventivo cambia vita.
    Viene ridisegnato ammettendo, accanto a quello in continuità, anche la procedura finalizzata alla liquidazione dell’azienda, se questa è in grado di assicurare il pagamento di almeno il 20 per cento dei crediti chirografari.
  4. Ristrutturazione del debito? Arrivano gli incentivi.
    Il limite del 60% dei crediti per l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti dovrà essere eliminato o quantomeno ridotto.
  5. Per i gruppi d’imprese un procedimento unico.
    Via alla procedura unitaria relativamente alle crisi e all’insolvenza delle società di un gruppo. Quando i procedimenti rimarranno distinti nasceranno comunque obblighi di collaborazione e reciproca informazione a carico degli organi procedenti.

A cura della redazione
© Riproduzione riservata

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